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mercoledì 2 ottobre 2013

Depressione: in aumento il consumo dei farmaci


La paura, la vergogna e la demotivazione a vivere
 ed agire che caratterizzano la depressione
 ci impediscono di riconoscere e sfruttare
 le infinite possibilità che riempono il mondo.
(M.F.)



Qualche giorno fa è apparso un articolo sul consumo di farmaci psicotropi da parte degli italiani.
Il rapporto annuale  dell'AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) riferisce che in Italia il consumo di farmaci antidepressivi è notevolmente aumentato negli ultimi anni, soprattutto fra donne e anziani e che la causa sarebbe principalmente imputabile, sempre secondo l'AIFA, alla crisi che il nostro Paese sta attraversando.
A smentire questa relazione causa-effetto così netta è però l'Eurispes; ed io appoggio pienamente quanto rivela quest'ultimo rapporto.

Al di la della cause "presunte" dall'AIFA o dall'Eurispes, che sono solo ipotesi fuori da ogni possibile riscontro nella realtà, perchè, onestamente e personalmente, non credo proprio che questi signori statisti/giornalisti conoscano quale sia lo stato umorale delle persone che vivono in Italia, non lo trovo affatto ragionevole e quindi  possibile che il tasso di aumento di un prodotto farmaceutico come l'antidepressivo sia indicativo anche di un correlato aumento di disturbi dell'umore quali, appunto, la depressione.

Anzi io dico che sarebbe auspicabile che fosse così: perchè vorrebbe dire che le persone negli ultimi anni hanno iniziato a prestare attenzione al loro stato di salute mentale e si rivolgono ai professionisti del settore che li aiutano in maniera adeguata.

Dalla mia esperienza con i pazienti ma non solo, anche con amici o conoscenti che, per un motivo o per un altro, si sono trovati ad attraversare momenti di forte stress, accompagnato talora anche da sintomi ansiosi o di umore depresso, ho notato che questi, rivolgendosi al proprio medico "di fiducia" (leggasi medico di base) per parlargli della propria sintomatologia (perchè magari, giustamente, han pensato ad un problema fisico), si sono ritrovati dopo qualche minuto con in mano una bella ricetta per cipralex, paroxetina, zoloft oppure alprazolam, xanax ed è inutile che continui con la lista di antidepressivi o ansiolitici.
Insomma un classico "È un pò di stress; stai un pò esaurito: prendi un pò di questo e vedrai che ti passa!"

Ammetto che però sarebbe una gran cosa se il medico "di fiducia" fosse almeno aggiornato sui più recenti farmaci antidepressivi o ansiolitici piuttosto che dare un farmaco preistorico contro i cui effetti collaterali gli psichiatri "illuminati" ancora combattono per rimediare ad "orrori" commessi in passato  e che sono stati e tuttora sono la rovina di molte persone (ansia da rimbalzo, ossessioni, disregolazione umorale, problemi metabolici, insonnia, ecc.); gran cosa sarebbe anche non vedere i signori medici di base mentre cercano disperati sulla loro incasinatissima scrivania quel farmaco, quella locandina, quel bigliettino che qualche giorno prima  un qualche informatore scientifico ha lasciato, presentandogli un nuovo prodotto psicotropo che subito verrà prescritto al mal capitato (che, per chi non lo sapesse, equivale spesso ad un introito di qualche natura anche per il medico).

Quindi questa aspra critica per dire che saranno sicuramente aumentate le vendite degli antidepressivi ma purtroppo ciò non corrisponde alla "CURA" adeguata di tali disagi.
E ne è dimostrazione il fatto che non solo donne ma giovani e giovanissimi vengono travolti da disagi come la depressione, che troppo spesso, ultimamente, li portano a gesti estremi quali il suicidio e tutto perchè qualcuno ha pensato che fosse un "periodo no", piuttosto che un po' d'ansia o "problemi tipici dell'età".
Ignorando, non riconoscendo e trascurando un male quale è la depressione che in troppi credono incurabile e che in moltissimi, dai familiari ai medici, non riescono a vedere e a coglierne gli indizi affinchè possa essere curata, ebbene si, dai primi segnali.
E ancora una volta io mi ritrovo a dire ciò che molte persone credono invece impossibile: dalla depressione si guarisce, la depressione passa, farmacologicamente e con l'aiuto di  una terapia adeguata (come la cognitivo comportamentale, scientificamente dimostrata efficace) che, se fatta bene, consentirà anche di tornare a vivere senza farmaci (cosa che molti temono).
La depressione ci spegne giorno dopo giorno; è più facile pensare che prima o poi questo o quel farmaco farà finalmente il suo dovere e si ricomincerà a sorridere, ad uscire, a gioire della vita. 
E nell'attesa che ciò avvenga ci si ritira sempre più dalla vita, ci si rinchiude sempre più nel proprio mondo di malinconia, di solitudine, di perdita, di rabbia, di dolore e tutto lentamente si spegne.
La crisi che hanno voluto mettere in mezzo per giustificare l'aumento della depressione anzi delle depressioni obbliga a pensare anche alla spesa che occorre per sostenere un percorso di guarigione; ovvio che visto nel breve termine, di questi tempi, tutti saremmo portati a pensare che è meglio non "sprecare" soldi.
La questione è il lungo termine: cosa, se non riusciamo a risollevarci dal baratro della depressione, ci porterà in termini di perdite?Se non si avrà più la forza e la voglia di uscire a lavorare, di tirare avanti perchè la depressione porta a questo, sarà stata vana cosa il risparmio odierno, non trovate?
Quindi meglio pensare ad un investimento futuro per la propria salute, una sorta di assicurazione per la vita, che però sarà pagata per poco tempo ma che durerà per moltissimo, se non per sempre.


martedì 18 giugno 2013

Quando chiedere aiuto allo psicologo?


Purtroppo, troppo spesso, le persone decidono di rivolgersi ad un professionista abbastanza tardi, anche se, ahimè, a ragion veduta.
Nel 2013 l'alone che circonda la figura dello psicologo (e dello psicoterapeuta!) resta ancora circondata e intrisa da varie e svariate influenze che vanno dallo stimato professionista medico (ma lo psicologo un medico non è!!) al mago che risolverà i problemi perchè basta che gli parli e lui capisce tutto (magari!) per finire ad essere un non lontanissimo parente di astrologi e cartomanti (con tutto il rispetto per queste altre professioni) per finire con l'essere un ciarlatano e basta.
Dunque, grazie anche alle influenze dei mass media (film, libri e persino musica, specie di origine americana) e di una sub-cultura (tipicamente italiana) improntata al "i panni sporchi si lavano in famiglia" piuttosto che "non mi serve lo psicologo non sono mica matto!", la sofferenza e il disagio psicologico dilagano ad ogni età e con differenti intensità sempre più frequentemente, soprattutto nella attuale società contemporanea e di certo non è d'aiuto a nessuno lo scarso supporto fornito anche dai medici di base, troppo facilmente propensi a dispensare farmaci piuttosto che suggerire utili percorsi di salute mentale.

In genere, dunque, capita che una persona (o un suo familiare o una persona vicina) si rivolga ad uno psicologo solo quando i sintomi di un qualche disagio (ansia, panico, depressione, disturbi alimentari o altri) sono diventati ingestibili: la vita della persona è compromessa in vari ambiti e la sua qualità di vita e decisamente bassa.

Si può ricorrere all'aiuto dello psicologo per svariati motivi: lo psicologo non si occupa (o almeno non solo!) di "matti" (per quello che possa poi significare questo termine oggigiorno...) 
Pensiamo ad esempio a dei sintomi di ansia che iniziano a manifestarsi per un qualunque motivo: si tende a pensare che sia qualcosa di passeggero e, fortunatamente, molte volte lo è.
Altre volte, invece, questi sintomi iniziano a peggiorare: aumentano di frequenza, di intensità (spesso diventano delle vere e proprie crisi di ansia acuta o, peggio, degli attacchi di panico) e, a lungo andare, se non trattati in tempo e in maniera adeguata, possono invalidare la  vita di una persona, nel campo sociale, affettivo, lavorativo, ecc.
La persona colpita da questi sintomi inizierà a non uscire più, per paura di sentirsi male e non poter gestire i sintomi: questa "illusione" è in realtà evitamento, un comportamento (in realtà una vera e propria tecnica di sopravvivenza) che permette di evitare, appunto, situazioni, luoghi, persone che nella nostra mente potrebbero innescare i sintomi ansiosi (questa modalità comportamentale è valida per tutti i disturbi: ansia, depressione, fobie...).

Rivolgersi ad uno psicologo sin dai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l'aggravamento di una situazione.
Spesso i disagi mentali arrivano in maniera insidiosa, lentamente e ci si rende conto di essi solo quando esplodono potentemente nelle nostre vite; sarebbe bene che nella società odierna, così frettolosa, così egoista, così fortemente stressante, passasse da ogni ente di cura l'interesse a curare la propria sfera psicologica, con servizi adeguati e proposte professionali facilmente fruibili per tutti.
Lo psicologo è il professionista che può capire il disagio che una persona vive, fornire spiegazioni sul perchè sta vivendo una situazione di malessere e "tranquillizzarla" su ciò che sta passando (tecnicamente si dice "normalizzare", ovvero far capire alle persone, in maniera adeguata, che ciò che vivono non è indice di gravi malattie nè fisiche nè, soprattutto, mentali!).

Attraversare momenti di malessere psicologico può capitare: soffrire di depressione, ansia, attacchi di panico (tanto per citare i malesseri più diffusi) NON è indice di pazzia!
Spesso, le persone hanno paura proprio di questo: credono che soffrire di ansia o attraversare un periodo di depressione equivalga all'esordio della pazzia.
E poi ci sono i sentimenti di colpa e la vergogna dovuti a retaggi secolari connessi alla sofferenza mentale: la sofferenza psicologica diventa colpa della persona che ne soffre (etichettato come "debole") ma anche della famiglia di cui fa parte (colpa di genitori, famiglia, paese, nazione e tutto il resto a presso!).
Nasce la paura dello stigma sociale: "bisogna" tenere nascosti i sintomi della "malattia" così da non poter essere riconosciuti dalla società. 

I malesseri psicologici sono spaventosi: come si avverte un sintomo ci si spaventa; la prima volta è un trauma che si cerca immediatamente di dimenticare, spesso con mezzi assolutamente inadeguati: alcool, condotte lesive, farmaci, ecc.
Poi capita che il sintomo si ripresenti una seconda volta, una terza e poi ancora e ancora; e ogni volta la persona fa di tutto per arginare e contenere i "danni" dei sintomi: non ne parla per vergogna e ci si difende e ci si rinchiude sempre più, nell'attesa angosciosa che si ripresenti il sintomo o che scompaia magicamente.
Alla fine, però, purtroppo, il sintomo diventa parte della vita della persona, diventando cronico, sepolto sotto tutto ciò che una persona ha fatto per "nasconderlo", "non pensarci", "metterlo da parte".
Non si cerca supporto, nemmeno dagli amici o dai familiari; non se ne parla per vergogna e timore di essere diventata una "persona diversa": "un tempo ero quello forte: mai avrei pensato mi potesse capitare una cosa simile, a me. Io che ero uno su cui tutti hanno sempre fatto affidamento, il forte della situazione" (cit. "Un mio paziente")
Con l'aiuto dello psicologo la persona impara a capire che la mente umana mette in atto le più svariate strategie per fronteggiare le situazioni difficili e/o dolorose: alcuni funzionali, altre meno.
E quando si presentano le strategie non funzionali, perchè limitanti la vita di una persona, chiedere aiuto allo psicologo è fondamentale per imparare nuove strategie per fronteggiare i problemi della vita.
Questo non vuol dire che la persona sia sbagliata o che il suo modo di vivere sia sbagliato: significa che un problema richiede una soluzione che una persona da sola non riesce a trovare.
Le strategie che mettiamo in atto di fronte ai problemi, alle sfide che la vita ci pone le impariamo sin dall'infanzia e si consolidano nel tempo, attraverso l'esperienza e la maturità.
Alcune strategie ci saranno utili per tutta la vita e in tutte le situazioni mentre altre risulteranno inefficaci e questo non perchè ci manchi qualcosa e, quindi, siamo sbagliati ma perchè in quella situazione non ci siamo mai trovati prima: quindi, non abbiamo gli strumenti adatti per fronteggiarla perchè nessuno ce li ha insegnati!
Diventati adulti è difficile che riusciamo a cambiare un modo di pensare e di agire difronte alle situazioni nuove; si cerca di mettere in atto strategie che conosciamo o si tenta di trovarne di nuove, che possono o meno andare bene.
Ci sono abilità e competenze che acquisiamo sin da piccoli e nel corso del tempo risulteranno sempre le stesse, con poche differenze di "applicazione": ad esempio portare la bicicletta!
Prendiamo il guidare la macchina invece: quando la prima volta provai a guidare una macchina con il cambio automatico fu un disastro (anche la seconda e svariate successive volte: le abitudini son difficili da sostituire!); alla fine ho acquisito la nuova abilità di sapere guidare un auto cui manca il terzo pedale che ho sempre conosciuto e grazie al quale guidavo.
Se nessuno mi avesse insegnato come si guida una macchina col cambio automatico probabilmente non ne avrei mai guidata una.
Pensate che siano riduttivi gli esempi citati? Non lo sono; abilità comportamentali e capacità mentali ed emotive si acquisiscono e si mantengono in maniere identica.

Laddove le varie strategie note che vengono utilizzate falliscono, ecco che si manifesta il malessere, l'ansia, la paura per qualcosa che non sappiamo fronteggiare: condizioni queste normalissime, umane.

Un altro esempio: non vi è mai capitato di essere a casa, in silenzio, immersi nei vostri pensieri e all'improvviso... un fortissimo rumore proveniente dall'esterno o dall'interno della vostra abitazione.
La prima reazione? Vi girate immediatamente verso la fonte del rumore con il cuore che vi palpita in gola (se non avete già mandato un urlo e vi siete buttati sotto il tavolo -anche queste reazioni "normali")
Che tipo di reazione è stata? Un riflesso innato, fisiologico di sopravvivenza: la paura di qualcosa di sconosciuto (il rumore) ha attivato il nostro corpo (il cuore che batte, le orecchie tese, i muscoli rigidi) e siamo pronti a scattare in caso di pericolo (o a fuggire - sotto il tavolo - o a richiamare l'attenzione - urlare -)
Questi esempi servono a dimostrare che tutte le reazioni emotive e/o fisiche messe in atto in particolari situazioni fanno parte della natura umana ed hanno una loro funzionalità o almeno l'avevano in altre circostanze.
Quindi l'ansia, la depressione, il panico non sono sintomo di pazzia ma reazioni naturali esagerate, frutto di strategie che in quella situazione non sono più funzionali ed esprimono a un bisogno che richiede la nostra attenzione.

Noi sappiamo di cosa abbiamo bisogno e cosa la vita che conduciamo ci porta a privarci e/o a negarci: a lungo andare, questo stress, queste forzature che facciamo alle nostre vite, per i più svariati motivi, potrebbero portare alla manifestazione di sintomi psicologici: difficoltà affettive e relazionali, disturbi dell'umore, disturbi d'ansia, disturbi alimentari, ossessioni, fobie, scarsa autostima, incapacità di gestire la rabbia e tutto ciò che può inficiare il nostro benessere psicologico.
Se possiamo prenderci cura di noi perchè non farlo in maniera adeguata?
Fattore determinante per chiedere aiuto ad uno psicologo diventa ovviamente quello economico che si lega a quello temporale: costa tanto e lo si dovrà fare per chissà quanti anni.
Non è assolutamente vero, almeno la seconda parte: una terapia adeguata può anche durare 3 mesi, 3 incontri, 3 anni. Sulla questione economica io (e capisco che sono di parte) la vedo come un investimento su se stessi e sulla propria salute: spendiamo tanto per tantissime cose che non sempre ci sono utili ed essenziali; possiamo riuscire a progettare un budget specifico per noi stessi e il nostro benessere che sarà un investimento per il futuro, quando non ne avremo più bisogno.


giovedì 25 ottobre 2012

Depressione "autunnale"


"Come se non bastasse una normale depressione!" potrebbero asserire alcuni...
E in effetti esiste anche questo genere di disturbo dell'umore, di cui moltissime persone soffrono e che viene molto sottovalutato o, all'eccesso, diagnosticato in ogni dove.
Si tratta di uno stato generalizzato di ansia, umore sottotono, tendente al triste e melanconico, alle volte irrequietezza (specie nei bambini) e senso di apprensione, angoscia, mancanza di motivazione ad iniziare le cose, anche quelle nuove.
Vi è poi anche una sintomatologia fisica: senso di stanchezza e spossatezza, insonnia soprattutto "secondaria" - quando ci si sveglia durante la notte e non si riesce a prendere sonno se non dopo ore -, inappetenza o al contrario aumentato senso di fame, calo del desiderio sessuale o difficoltà nell'avere rapporti  sessuali completi.
Ovviamente non devono essere presenti tutti i suddetti sintomi e neppure si deve pensare che se ne presentiamo alcuni, in questo periodo, significa che siamo depressi!!

domenica 27 maggio 2012

Che stress lo stress!



Un termine sicuramente diffusissimo oggigiorno, soprattutto per il tipo di vita che portiamo avanti tutti: piena di impegni, correndo dietro al tempo e con la fretta di "non riuscire a..."
Lo stress, in realtà, non è un qualcosa di negativo in sè: "fisiologicamente" è la risposta di un organismo ad un fattore esterno (reale o immaginario, chiamato stressor) che produce un azione tesa a ridurlo; azione fisica, cognitiva e/o emotiva.
Facciamo un esempio con qualcosa di molto comune: l'influenza!
Quando il virus dell'influeza (stressor) entra nell'organismo produce una risposta da parte del nostro sistema immunitario tesa a ridurre il danno: si attivano le difese immunitarie e l'organismo inizia a mobilitarsi per far fronte al virus. Questa è la prima fase di risposta allo stress.
Questa fase prosegue in quella di "mantenimento": le difese dell'organismo lottano, letteralmente contro il virus per tornare alla situazione di benessere precedente, anche producendo sintomi (la febbre, la stanchezza, ecc.).
Quando l'influenza si risolve e il virus è annientato siamo nella fase conclusiva di risposta allo stress (fase di esaurimento) che ci consente di tornare ad uno stato di salute ottimale.
Cosa accade se questo non avviene? Accade che l'organismo si indebolisce e lo stressor, il virus, produce effetti che non sono più tenuti sotto controllo: l'influenza si complica e diventa qualcosa di più grave.
Queste fasi di risposta agli stressor le viviamo praticamente tutti i giorni; non come risposta ad una malattia ma con la mobilitazione delle nostre risorse cognitive, emotive e comportamentali.

lunedì 20 giugno 2011

Parkinson: un palcoscenico di possibilità



Oggi, l'associazione Onlus Parkinzone, presso la sede dell'IES (Istituto Regina Mundi) a Roma (Lungotevere Tor di Nona 7), dove settimanalmente si svolgono le attività del gruppo di persone affette da Parkinson che aderiscono a Parkinzone,  ha messo in scena o meglio i "Parkinzotti" hanno messo in scena il saggio finale per la chiusura dell'anno di lavoro.
L'Associazione nasce per fornire, in maniera del tutto gratuita, alle persone affette da malattia di Parkinson una serie di attività/laboratori che, col passare degli anni, si sono rivelate essere un preziosissimo aiuto e un supporto co-terapeutico per queste persone.
Vengono infatti svolti laboratori di teatro e di danza, cui verranno presto affiancati laboratori di arte-terapia.
Perchè tutto ciò? Perchè far fare teatro o addirittura danza a delle persone il cui problema è proprio il movimento, la rigidità, la difficoltà a mantenere l'equilibrio, assieme alle difficoltà del linguaggio, difficoltà espressive; per non parlare poi del fatto che può capitare che questa malattia comporti anche delle carenze cognitive a livello di memoria, attenzione e capacità di produzione verbale?
Sembrerebbe una tortura per queste persone infierire con delle attività che richiedono loro tutto ciò che il Parkinson toglie col passare del tempo...
E invece no! Anzi lo riscrivo e anche in maiuscolo per sottolineare e affermare meglio il concetto:

E INVECE NO!

Parkinzone Onlus è attiva da circa sette anni grazie all'opera di attori e ballerini professionisti, terapisti della riabilitazione e specialisti in arti terapia; affianco alle figure più "operative" vi è poi il supporto medico del Dott. Nicola Modugno, specialista in neurologia ed esperto di Parkinson.
In tutti questi anni di attività si è andata sempre più consolidando una realtà che pochi si aspettano e che, per queste persone, rappresenta una possibilità, tante possibilità: durante i laboratori di teatro e di danza queste persone recitano, ballano, cantano, si divertono, esprimono emozioni...
Questa è la contraddizione che viene offerta a queste persone: laddove la vostra malattia vi blocca, queste attività vi rimettono in moto!
E, onestamente parlando, quante persone, familiari, conoscenti o parkinsoniani stessi, pensano sia possibile una cosa simile?
Io questa mattina l'ho visto ancora più dettagliatamente assistendo al bellissimo e davvero emozionante spettacolo messo in scena.
Ovviamente non sto dicendo che grazie al teatro e alla danza queste persone agiscono come se non avessero alcuna malattia; agiscono, si comportano, si muovono, vivono la loro vita, le loro emozioni, il loro Parkinson, in quei momenti, in maniera differente.
Il Parkinson è una malattia che toglie qualcosa alle persone: queste attività espressive consentono invece di recuperare ciò che resta e sfruttarlo al meglio, lasciando un attimo il Parkinson dove sta e vivendo il resto del proprio corpo, esprimendolo, soprattutto emotivamente.
Molto spesso il soggetto Parkinsoniano rimane "ingabbiato" nelle sue stesse difficoltà che lo portano a provare emozioni fortemente negative: ansie, malumori, depressioni vere e proprie, panico, fobie..
Tutte queste intense emozioni bloccano ancor più la persona, più di quanto faccia la malattia stessa.
Personalmente ritengo che, anche se venisse inventato il miglior farmaco di tutti i tempi per il Parkinson, il fatto stesso di avere la malattia, il fatto stesso di "NON ESSERE PIU' COME PRIMA" impedirebbe al farmaco di agire come dovrebbe e risulterebbe quindi inefficace.
Perchè mi son dilungato sull'importanza dell'emotività e sulle emozioni negative che "rafforzano" i sintomi della malattia?
Perchè durante il teatro e la danza, quando si recita, quando si interpreta qualcun altro, quando si lascia che il proprio corpo segua dei ritmi liberamente e non forzatamente, le persone affette da Parkinson recitano, cantano e ballano. Limitate dalla malattia certo ma "distratte" dalla propria volontà a voler controllare i sintomi della malattia.
Si potrebbe paragonare ad una sorta di dissociazione della coscienza: in quel momento sono totalmente concentrati a interpretare, ad esprimere un'emozione, a cantarne un'altra; la coscienza sul proprio stato fisico (mano che trema, gamba che non si ferma, rigidità..ecc) viene un pò meno (a volte molto meno) ed ecco che anche la relativa ansia di controllo cala e ciò che rimane sono le molte possibilità che queste persone ancora hanno da sfruttare nella propria vita.
Per me è stata una grande emozione osservare stamane questo gruppo di persone recitare e poi danzare: posso affermare di non aver visto dei parkinsoniani che recitavano o danzavano ma delle persone con un disagio fisico che in quel momento non era la cosa più importante della loro vita: ciò che in quel momento era importante mi è sembrata la possibilità che hanno mostrato di come la vita possa ancora esser vissuta.

lunedì 31 gennaio 2011

Quel "brutto periodo" che diventa Depressione

A tutti capita di avere delle giornate "storte": giorni in cui sembra che tutto vada male, che tutti ce l'abbiano con noi, giorni in cui non crediamo in noi stessi e ci sentiamo travolti dagli eventi che ci accadono.
Ma poi, spesso e per fortuna, il giorno dopo va meglio o magari già alla fine della giornata, quando tornati a casa ritroviamo le nostre sicurezze e gli affetti che ci fanno stare bene.
Giornate così capitano molto frequentemente perchè non possiamo prevedere e prevenire tutto nella vita..
La variabile X che va storta e, di conseguenza, altera i nostri progetti e il nostro umore c'è sempre.
Ma, aggiungerei, per fortuna che c'è questa variabile X: è anch'essa che ci insegna qualcosa e ci permette di crescere come persone e, soprattutto, le circostanze che ci fanno stare male e ci rattristiscono molte volte ci permettono di godere maggiormente di ciò che ci fa stare bene.
Alle volte capita purtroppo che la giornata "NO" continui anche il giorno seguente e nei successivi anche.
Allora tutto comincia a diventare cupo e grigio; si perde interesse per ciò che prima si trovava attraente e piacevole, la motivazione a fare qualcosa diminuisce e con essa la propria autostima.

sabato 18 dicembre 2010

Parkinson:lento il movimento lenta l'accettazione

Questo articolo non vuole essere una trattazione medica della malattia di Parkinson: non ne avrei le competenze, non essendo un medico.
Vorrei piuttosto delineare le difficoltà anche psicologiche che, molto spesso, accompagnano le persone affette da questa malattia.
Da qualche anno lavoro al Neuromed, un ospedale che si occupa principalmente di disordini neurologici: mi occupo di sperimentazione farmacologica in malattie neurologiche quali il Parkinson, la Sclerosi Multipla, l'Alzheimer, fra le più note.
Questo tipo di lavoro mi permette di fornire anche supporto psicologico ai pazienti che si rivolgono all'ospedale e che vengono seguiti dai neurologici con cui collaboro.
Quindi, non una competenza medica ma una conoscenza psicologica dei vari vissuti di sofferenza psicologica che queste persone hanno.
Il Parkinson, oggetto di questo articolo, è un disordine neurologico che comporta, al suo esordio, lentezza e rigidità del movimento di un arto, di entrambi gli arti dello stesso lato o di entrambi i lati del corpo.
Generalmente, immaginiamo il Parkinson come una malattia della vecchiaia.
In realtà non è esattamente così poichè esiste anche un Parkinson ad esordio precoce, che si manifesta nella prima età adulta, attorno ai 40 anni.
E se, generalizzando e volendo essere superficiali, viene più facile accettare questo tipo di malattia quando si ha una certa età, sebbene comporti sempre una sofferenza e un costo sociale e affettivo alti, la condizione psicologico-emotiva di una persona con un Parkinson ad esordio precoce comporta, forse, un maggiore disagio.
La depressione, che quasi in tutti i casi accompagna la malattia o ne è un sintomo di esordio, tende a peggiorare a causa delle implicazioni che il Parkinson comporta: giovani uomini di 40-50 anni che sentono il peso della malattia come un macigno che li distrugge e gli impedisce di vivere la loro vita.
L'autostima cade a picco e il senso di efficacia personale si riduce: la stanchezza non permette di essere attivi "come un tempo", fare qualche passo in più durante una passeggiata diviene una sofferenza e persino il dormire non è soddisfacente.
Questi sono per lo più le conseguenze fisiche...sul piano personale poi, c'è spesso la vergogna di essere un malato di Parkinson (cosa pensera la gente vedendomi?mi compatirà?), il senso di colpa per il pensiero di essere un peso per i propri familiari, l'idea che non si è più prestanti come prima porta lo sconforto perchè spesso c'è il pensiero negativo di "non poter più servire" agli altri a cui si vuole bene, la famiglia in primis.
E, spesso, lavorare, cercare di condurre una vita "normale" diviene una sfida con se stessi che, purtroppo, viene spesso persa.
Spesso, in queste persone ho osservato come ci sia il tentativo, comprensibile, di voler continuare a fare esattamente ciò che facevano prima e allo stesso modo; la completa non accettazione della malattia, alle volte, fa si che non si accettino le "vie di mezzo": o faccio quello che facevo prima allo stesso modo o non so fare più nulla.
Accettazione significa questo: riuscire ad entrare nell'ottica che va bene anche dare 9 invece che 10 o anche 8 o 5, che è sempre meglio di 0.
Se invece i pensieri negativi sulla malattia e su quello che "toglie" alle capacità e alle possibilità di una persona malata di Parkinson predominano, la persona si sentirà frustrata, arrabbiata e con un senso di solitudine, di tristezza e di inefficacia, facendo si che sintomi quali depressione, ansia, panico si aggiungano al disagio fisico.
Nella mia esperienza ho potuto constatare quanto faccia bene a queste persone avere un confronto che faccia loro capire, con i giusti tempi, che Parkinson non vuol dire "STOP" piuttosto "RALLENTA".
Quindi, non lasciate che i vostri pensieri negati fermino la vostra vita.
Rallentare, visto da un altro punto di vista, può anche voler dire godere maggiormente di ciò che la vita può offrire e di ciò che voi potete ancora offrire ad essa.

martedì 7 dicembre 2010

Quando una storia finisce si può rimanere amici?

E sto abbracciato a te senza chiederti nulla,
per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te senza guardare e senza toccarti.
Non debba mai scoprire con domande, con carezze,
quella solitudine immensa d'amarti solo io.
~ Pedro Salinas ~



Ascoltando la radio, mi è capitato di sentire un sondaggio lanciato dai conduttori sulla possibilità dell’amicizia fra uomo e donna e, in particolare, fra due persone che si sono lasciate.
Molti potrebbero pensare che è impossibile o altamente improbabile che si realizzi la famosa frase “rimaniamo amici!”.
Ma perché mai dovrebbe essere così difficile mantenere una relazione affettiva d’amicizia con qualcuno che abbiamo amato?
Probabilmente, molto dipende dal modo in cui finisce una storia d’amore.
Una coppia che non ha mai avuto un buon livello di comunicazione difficilmente affronterà il tema della separazione in modo adeguato.
Questo non vuol dire che separarsi sia facile, tutt’altro.
Ci si lascia per i più svariati motivi: incompatibilità, difficoltà di comunicazione, difficoltà a mantenere alta la passione all’interno della coppia e, ovviamente, la fine del sentimento, almeno per un membro della coppia.
Relativamente ai primi motivi (che sono solo alcuni fra i tanti) si può lavorare sia in coppia che, se non ci si riesce, con l’aiuto di un professionista.
Spesso, infatti, sono i nostri pensieri automatici negativi a creare disagio all’interno della relazione: gelosie incontrollate, aspettative esagerate sull’altro, incapacità a comunicare bisogni e desideri portano facilmente a incomprensioni con il partner che, a lungo andare, se non elaborate, possono condurre alla chiusura di un rapporto.
Può capitare che, nonostante gli sforzi della coppia di andare avanti, l’amore finisca comunque.
L’amore è un sentimento che ha un inizio e che può, ebbene si, avere anche una fine.
Quando l’amore finisce ci si chiede se avremmo potuto far qualcosa per mantenere vivo il sentimento del partner; spesso ci incolpiamo per ciò che è accaduto con vari “se solo…”
Quando due persone si lasciano si innesca un meccanismo molto simile a quello del lutto.
Di fatti, quando ci si separa, si perde una persona cara, anche se non definitivamente e si attraversano 5 fasi: il rifiuto, il dolore, la rabbia, il senso di colpa, la paure a, infine (che si spera arrivi per tutti), l'accettazione.
Si potrebbe ipotizzare che queste fasi le “subisca” molto più pesantemente il membro della coppia che “è stato lasciato”..
Il rifiuto è la prima reazione alla notizia, lo schiaffone che ci coglie alla sprovvista: “è finita!”.
Rimasti soli, si prova il dolore e la tristezza per la perdita della persona amata: esemplare l'immagine comune di vari film di un membro della coppia che si trascina per casa in pigiama consumando quintali di gelato..
Arriva poi la rabbia e, di conseguenza, il pensiero di aver subito un torto, un’ingiustizia.
Oppure, se non si addossano le colpe all’altro, siamo arrabbiati perché è finita, perché non è giusto che sia finita, perché erano stati fatti progetti per un futuro che ora si schianta contro un muro di mattoni e si infrange in mille pezzettini.
Partono dunque i sensi di colpa, i famosi “se solo io avessi fatto, detto, pensato ecc…”
Infine, dopo un tempo che è diverso da persona a persona, arriva l’accettazione per ciò che è successo e siamo pronti ad andare avanti con la nostra vita, portando nel cuore il ricordo di quell’amore che abbiamo provato.
Ebbene, finita la lunga spiegazione, la domanda arriva spontanea: perché se c’è accettazione non ci può essere continuità nel rapporto con una bella amicizia?
Probabilmente, spesso, le persone non superano le 5 fasi e restano attaccate ai loro sentimenti di rabbia oppure la tristezza si protrae così a lungo da diventare vera e propria depressione.
Ed ecco che il solo pensare di avere contatti con l’ex partner ci fa arrabbiare o ci fa sprofondare nella tristezza, che solitamente sono le due emozioni prevalenti.
Per superare la rottura di un legame c’è un tempo fisiologico proprio di ognuno, durante il quale “ci si lecca le ferite”, si dovrebbe guardare e imparare dai nostri e altrui errori, si matura emotivamente.
Se si è riusciti a comunicare efficacemente con il partner, difficilmente ci sarà una rottura brusca e che non lascia spazio a possibilità future.
Basta prendere come esempio, sicuramente un po’ esagerato, il famoso film “La guerra dei Roses”, in cui i due membri (Michael Douglas e Kathleen Turner) arrivano a farsi tutto il male possibile, fino alla morte, senza aver mai espresso i loro sentimenti nei confronti dell’altro.
La rabbia, il dolore, l’umiliazione, l’amore e ogni genere di sentimento che si può provare, positivo o negativo, quando non espressi, ci spingono ad agire d’impulso a causa dei pensieri automatici che generano in noi.
E così l’altro diventa quello da perseguitare oppure da dimenticare completamente per il male/torto che ci ha fatto.
Io personalmente penso che si, si può rimanere ottimi amici dopo che una storia finisce e dopo che ogni membro della coppia ha superato ed elaborato la separazione.
Imparare a riconoscere le proprie emozioni e i propri pensieri automatici che impediscono di vivere le relazioni (affettive e non) serenamente, senza lasciarsi guidare dal proprio “pilota automatico” è essenziale in ogni occasione di contatto con gli altri, specie quando si tratta di una persona che ha avuto un posto speciale nella nostra vita.

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