giovedì 26 settembre 2013

Caffè anti stress a lavoro...





http://salute.ilmessaggero.it/medicina/notizie/pausa_caff_colleghi_macchinetta_antistress_ricerca_salute/327866.shtml

Ecco un'altra di quelle scoperte che rivoluzionano il mondo tipo l'acqua calda...
Quando non si sanno come spendere soldi evidentemente si fanno queste ricerche.
Chi mai potrebbe dire che non sia salutare innanzitutto una pausa caffè anche soli, in qualunque circostanza ma soprattutto un caffè con i colleghi per spezzare con la routine lavorativa che ci opprime 5 giorni su 7 e per alcuni anche più?

I ricercatori danesi invece si sono impegnati a mostrare fino in fondo quanto sia importante per aiutare a sostenere lo stress lavorativo.

Che lo si sappia o no "stress" è un termine che non rappresenta qualcosa di negativo nè positivo ma indica un qualunque fattore, interno o esterno ad un organismo, reale o immaginario, che richiede una risposta dell'organismo stesso ad esso.
Purtroppo allo stress si attribuisce automaticamente una connotazione negativa; in realtà la definizione corretta per lo stress che causa problematiche sarebbe distress.

"Stressante" può esserlo una infinità di situazioni che spaziano fra i più svariati ambiti: lavorativo, familiare, sociale, affettivo, salutare, ambientale, ecc ecc.
Sono le valutazioni cognitive che la persona da all'evento stressante che rendono la situazione fonte di disagio o no.

Arriviamo all'ambito lavorativo che è stato oggetto di questa ricerca.
La maggior parte delle persone che ha un lavoro dipendente e che lavora in una struttura organizzata è "costretta" a sottostare a regole che gli impongono dei cambiamenti: questo è la prima fonte di stress.
Questi cambiamenti sono ad esempio il doversi svegliare presto la mattina, percorrere un tot di strada, in macchina o altro, per raggiungere il luogo di lavoro, rispettare gli orari di ingresso a lavoro, magari vestirsi in un determinato modo per andare a lavoro e si potrebbe continuare a lungo facendo riferimento solo al rapporto persona-lavoro.
Bisogna aggiungere a questo ben imponente stress anche quello che deriva automaticamente dal primo fino a creare una cascata di eventi stressanti a partire dalla prima fonte di stress che è rappresentata dal lavoro.
Organizzarsi per portare i figli a scuola, ad esempio, il traffico con tutto ciò che comporta, eventi indipendenti dalla propria volontà e che si aggiungono a potenziare lo stress.

Probabilmente siamo solo alle 8 massimo le 9 del mattino...Arriviamo sul posto di lavoro già sfiniti probabilmente e mentalmente esauriti e iniziamo solerti la nostra bella e amata attività...
Troppi posti di lavoro, anche quelli che non prevedono un contatto con il pubblico, sono stati organizzati per separare i vari dipendenti: uffici, postazioni, piani differenti di un edificio strutturati in modo da evitare il contatto fra i lavoratori impedendogli così di perder tempo (in un'ottica aziendale ovviamente).
Natura vuole poi che fisiologicamente dopo un'oretta massimo due ore la capacità attentiva di una persona cali drasticamente assieme alla sua curva glicemica e, di conseguenza, la sua capacità produttiva...
Siamo arrivati finalmente alle 11, 11.30: scatta la pausa caffè!!!

Dove lavoro io è passata una circolare che vieta espressamente di sostare nella zona bar per un tempo superiore a quello necessario "ad assumere una tazzina di caffè, seguito, ove necessario, dalla necessità di fumare una sigaretta"...e poi si torna subito a lavoro!

Diciamo che un dieci, massimo venti minuti ce li si concede al bar tra un caffè e due chiacchiere con chi ci capita a tiro.
La nostra mente nel frattempo continuerà da sola, da qualche parte a lavorare a ciò che stavamo facendo...

Ebbene si, anche al bar non siamo davvero "liberi" e per questo ringraziamo il fantastico "effetto Zeigarnik" ma sicuramente possiamo soddisfare un bisogno, quello di dedicarci a noi stessi e alla socialità, anche se per poco tempo, che ci consente di alleggerire la nostra test e "ricaricare" le munizioni anti-stress.

Io direi che è fondamentale la pausa caffè ogni tanto; ad alcuni sembra una perdita di tempo ma in realtà ci consente due cose delle quali non siamo sempre completamente consapevoli: elaborare strategie ulteriori e nuove per portare a termine mentalmente ciò che stavamo facendo (l'effetto Zeigarnik) e dedicare spazio "ludico" a noi stessi, favorendo anche il primo!

Stando così le cose un avvertimento importante: guai a parlare di lavoro durante la pausa caffè!
La ricerca parla infatti di scambio di opinioni: ebbene io sono contrario a questo.
Sempre dove lavoro io che sia pausa caffè o pranzo o cena (ci si ritrova sempre...) vedo il personale che non fa altro che parlare di lavoro, dei casi che ha visto durante la giornata e su cosa devo, dovranno o dovrebbero fare..
Ho sempre pensato che fosse la cosa peggiore che possano fare a loro stessi portarsi il lavoro ovunque senza concedersi quello spazio per se stessi di cui dicevo sopra.
La parola pausa deriva dal verbo greco"payo" che significa "mi riposo", "faccio cessare", "mi fermo" (inteso nel parlare, così da "recuperare" la voce).

Lo stress se mal gestito diventa cronico generando anche serie problematiche di tipo fisico e psicologico di cui sicuramente scriverò in un altro momento. 
Quindi che pausa caffè anti-stress sia a lavoro e con i colleghi ma che non sia occasione per continuare a parlare di lavoro perchè ci sta già pensando la nostra testa; con i colleghi ci si può confrontare sulle "cose" di lavoro via mail o in qualunque altro modo ma non durante una pausa che deve essere dedicata a sè.
L'immagine di questo articolo che ho preso da qui è significativa di ciò cui andiamo incontro se non riusciamo a prenderci del tempo per noi, a differenza di quanto, allora, sosteneva qualcuno.



lunedì 16 settembre 2013

Bullismo



Cosa è esattamente il bullismo?
Un fenomeno purtroppo diffuso in svariati contesti dall'ambito familiare (ebbene si!) a quello scolastico e sociale.
Il termine bullismo deriva dall'inglese bullying ed è usato per indicare “un insieme di comportamenti in cui qualcuno ripetutamente fa o dice cose per avere potere su un’altra persona o domninarla”.
Il bullismo copre un'età che va dai 7 - 8 anni ai 14 - 16 anni con una diffusione più generalizzata nelle scuole elementari (41%) e nei primi anni delle medie (26%).
Pensando al bullismo probabilmente la prima cosa che verrà in mente sarà la violenza fisica messa in atto da un bambino/a o gruppo verso un soggetto designato; in realtà non esiste solo questa forma di bullismo fisico.
Possiamo infatti distinguere un bullismo verbale in cui la vittima viene umiliata e presa in giro con insulti, dicerie sul suo conto su aspetti fisici, di appartenenza culturale, atteggiamenti o qualunque altro aspetto contraddistingua la persona (vero o meno!).
Un bullismo indiretto e manipolativo, più tipico delle ragazze e il cui scopo è quello di isolare la vittima dagli altri, così che in essa sorgano problemi di autostima, depressione, incompetenza e che la portano ad isolarsi ulteriormente e sempre più, generando un circolo vizioso.
Il bullismo fisico invece, tipico dei maschi (ma non esclusivo!), corrisponde all'idea comune di bullismo: c'è un aggressore, il bullo, che se la prende con una vittima con percosse fisiche, privandolo di oggetti personali o danneggiandoli, operando insomma una evidente prevaricazione fisica sul soggetto; questa forma di bullismo è ovviamente più facilmente riconoscibile in quanto spesso le vittime hanno segni evidenti dei danni subiti (lividi, ferite, strappi, ecc.).
Il problema più grande con cui gli tutti gli operatori (insegnati, educatori, psicologi e familiari stessi) si trovano a fare i conti parlando di bullismo è che, nonostante sia una realtà presente e diffusa in ogni dove, rimane un fenomeno sommerso.
Questo perchè la vittima è tale non solo in quanto presa di mira dal bullo ma soprattutto perchè non riesce a riferire ad altri quanto le accade, spesso per paura di ritorsioni; inoltre, anche coloro che “assistono” ad atti di bullismo non riferiscono quanto accade, innanzitutto per non diventare anch'essi vittime e subire quindi ritorsioni e spesso anche perchè pensano che non vi sia nulla da fare, in quanto ritengono il bullismo un fatto inevitabile o che la vittima “se la sia cercata”.
Cosa possono fare genitori e insegnanti per poter identificare le vittime di bullismo? Possiamo porre attenzione ad alcuni segnali che devono comunque essere intesi come una possibilità e non come certezza!
Per quanto riguarda la vita in casa, il bambino tende a non portare compagni; mostra segni di ansia al momento di andare a scuola, trova scuse per non uscire o compie strani percorsi per arrivarci; mostra segni di paura ed ansia con frequenti incubi notturni e sintomi fisici (mal di testa e/o di stomaco, vomito, ecc.) specialmente quando deve prepararsi per andare a scuola; torna a casa con oggetti danneggiati o lividi, graffi e ferite; sembra perdere il denaro o ne chiede continuamente senza una reale necessità o può anche arrivare a rubarlo (per assecondare il bullo); è disattento e inquieto e non riesce a fare i compiti con la necessaria attenzione.
A scuola, invece, viene preso in giro in modo pesante, rimproverato, intimidito, comandato o è oggetto di derisione; è aggredito fisicamente e non si difende; rimane solo in situazioni sociali quali la ricreazione e la mensa oppure resta sempre accanto all'adulto; ha difficoltà a parlare in classe; il suo rendimento peggiora gradualmente; si mostra infelice, depresso o spaventato.
Cosa fare dunque?
 Innanzitutto, a scuola l'insegnante deve evitare di porre il bullo su un "piedistallo", poichè sarebbe comunque un attirare l'attenzione su di lui, seppur negativa; questo significa non incolpare, non “pubblicizzare” le azioni del bullo e il bullo stesso, non prendere provvedimenti contro il bullo ma ricorrere al servizio di consulenza della scuola e/o ricorrendo a risorse esperte esterne.
Per quanto riguarda i genitori dovrebbero sollecitare la confidenza del figlio ed ascoltarlo con fiducia e rispetto; cercare di non gestire in proprio la situazione per non farlo sentire inadeguato; insegnare al figlio a difendersi (non con la violenza!) ed a chiedere aiuto; favorire la sua socializzazione con i coetanei; prendere contatto con l'ambiente scolastico senza timori di ripercussioni e ritorsioni; collaborare attivamente con psicologi e insegnanti per eliminare il problema.
Queste sono appunto alcune indicazioni di massima che possono aiutare genitori e insegnanti con il problema bullismo.
Occorre un intervento a livello del sistema-scuola nel suo complesso e che coinvolga tutti i partecipanti: bulli, vittime, studenti e tutto il personale.
Dovrebbero essere attivati servizi di prevenzione e progetti di intervento che mirino alla comprensione e riduzione di questo comportamento.
Ogni singolo comune, ogni municipio, circoscrizione, scuola, ritrovo sociale di ogni genere, qualunque posto che sia promotore di informazione e prevenzione per la società si dovrebbe, una volta per tutte, fare carico, attraverso personale "qualificato ed esperto", di organizzare corsi di formazione, progetti di prevenzione e recupero, campagne di informazione che aiutino bambini, ragazzi, genitori e personale educativo tutto ad affrontare questo problema.



martedì 23 luglio 2013

" Talent Show" : se il SUCCESSO è tutto ciò a cui puntiamo


Qualche notte fa, asfissiato dal caldo notturno che mi impediva di dormire, facevo "zapping" ossessivo e, soprattutto, afinalistico pur di trovare miracolosamente qualcosa che mi annoiasse e stremasse abbastanza e mi facesse addormentare.
In questo girovagare televisivo mi sono soffermato su un programma che mostrava un gruppetto di ragazze, di età non superiore a 16 anni credo, che cantava e si dimenava a più non posso.
Chi mi conosce sa bene che aborro questo genere di programmi e non li considero affatto "un'occasione", come qualcuno può sostenere.
Credo si trattasse del famoso X-Factor, made in USA di cui, ovviamente, ne abbiamo una versione anche in Italia e in ogni dove.
Di certo non è una critica ai programmi questo articolo ma a ciò che anima i partecipanti, spesso ragazzi e ragazze molto giovani che impegnano tutta la loro vita per cercare di emergere come cantanti, ballerini o quello che sia.
Non è forse lecito avere un sogno e tentare di realizzarlo? Assolutamente si; anche avere davvero un talento e tentare di farsi notare, di emergere per farne la propria professione è assolutamente lecito.
Infatti, questi programmi in sè non avrebbero nulla di male.
La cosa che mi lascia perplesso e mi rattrista anche un pò è vedere giovani, anche giovanissimi ragazzi e ragazze che pensano che la loro UNICA possibilità di realizzazione nella vita sia offerta da quel programma.
Ascoltando il programma e le interviste che venivano fatte ai partecipanti, questi riferivano frasi come "Sarebbe terribile se venissi eliminato/a adesso!", "Mi sentirei fallito/a se non arrivassi in finale!", "Cantare è tutto ciò che è importante nella mia vita!" ed altre di queste espressioni che mi hanno fatto riflettere su quello che può essere considerato un valore importante per la realizzazione personale e, di conseguenza, per il mantenimento della propria autostima.
Da considerare poi che questi giovani talenti erano accompagnati e fomentati (è proprio il caso di dirlo) dai propri genitori che assecondavano totalmente il modo di pensare dei propri figli (da chi lo avranno imparato poi....??).
Qual è il punto?
Passi che la società americana è improntata al successo personale e all'autorealizzazione da sempre; questa modalità made in USA non è di certo italiana ma stiamo facendo di tutto per importarla e "scimmiottarla", nella peggiore delle maniere, creando una generazione per la quale la propria autostima e il senso di auto efficacia si risolvono nell'essere dipendenti dal giudizio di un altro e con un'idea totalitaria di fallimento.
Ho visto in passato qualche puntata di questi show italiani e anche li si ripetevano medesime scenate di ragazzi "disperati" per non aver passato un turno; incitamenti di "insegnanti" e genitori (peggio!) a dare il massimo perchè altrimenti non vi era alcuna possibilità di successo.
Possibile, mi son chiesto, che ci siano così tanti genitori che insegnano ai loro figli che la vita è anche altro?
Che la loro vita, quindi loro stessi come persona, vale molto di più di quello che possono mostrare ad un altro estraneo che li giudica?
Una vecchia teoria, sempre attualissima, vuole che il genitore narcisista che non ha saputo/potuto realizzare qualcosa di spettacolare per sè, cerca di fare in modo che sia il figlio (estensione narcisistica del genitore) a farlo per lui.
Un'altra corrente vorrebbe che, viste le privazioni avute loro stessi da giovani, vista la facilità con cui oggi si può brillare in uno show, molti genitori sono più "permissivi", credendo loro stessi che sia cosa buona e giusta inseguire un sogno, se lo si ha piuttosto che perder tempo a prendere "un pezzo di carta"!
Passino entrambe queste modalità; il problema di fondo rimane uno: questi genitori non sanno insegnare ai propri figli che la vita è fatta da tante cose, ognuna con la sua importanza relativa e, soprattutto, il riuscire o meno in una di esse NON è indicativo di FALLIMENTO.
Molti ragazzi di oggi che tornano a casa da scuola ed hanno preso un voto di sufficienza vengono travolti dalle ire del genitore che inizia a paragonarlo con chi "è meglio" perchè ha preso di più, con chi si impegna di più (e quindi il figlio è uno sfaticato, se gli va bene); iniziano i vari "non riuscirai in nulla nella tua vita!", "sei una delusione", "sarai un fallito" e potrei continuare all'infinito.
E questo dicasi anche per lo sport, le amicizie e tutto ciò che può essere "misurato".
Cosa impara il pargolo (perchè tutto ciò inizia sin da tenera età...)? Sono un buono a nulla; sono un fallito; non so fare niente; i miei genitori non mi amano perchè sono un fallito/incompetente/inadeguato.
E non è sempre e solo la frase detta per "incitare" ma anche le espressioni di disapprovazione, di delusione: tutti segnali che vengono letti dall'altro come "NON VAI BENE!SEI UNA DELUSIONE".
A nessuno viene in mente di dire "Era una prova difficile, sei stato bravo ed hai fatto del tuo meglio!"

Tutto ciò ci porta a pensare che per essere accettati/amati dagli altri (genitori in primis) dobbiamo avere successo, eccellere altrimenti ci aspetta il fallimento e la nostra vita sarà una tragedia in tutto.


Ci sono tantissime persone che fanno questo tipo di ragionamento: chi da sempre e ormai, grandi, vive con ansia da prestazione, disturbi dell'umore, ossessioni o qualunque altro sintomo sia riuscito a "tamponare" l'ansia da fallimento; chi sta iniziando ora e non ha nessuno che gli insegni che nella vita c'è altro di importante e che la nostra persona, il nostro essere più profondo, ciò che ci rende una persona degna di amore e con una buona autostima e un buon senso di auto efficacia dipende da altro.

Imparare a raggiungere traguardi importanti è fondamentale per ogni persona; accettare che talora possiamo non farcela e "sopravvivere" comunque alla delusione è fondamentale per il nostro benessere psicologico.
Troppe tragedie di questi tempi, di giovani vite spezzate, parlano molto chiaramente di quello che ho scritto sommariamente in queste righe.

mercoledì 10 luglio 2013

Psicologo, Psicoterapeuta, Psichiatra: chi sono?


Una brevissima descrizione per far luce su chi sono queste figure professionali, esperti della salute mentale, che molto spesso vengono confusi, scambiati, temuti o completamente ignorati e che la cosa lampante che hanno in comune è quella bella PSYCHÈ quale radice comune e che in greco significa ANIMA: quindi, tre "esperti dell'anima".

Iniziamo dallo psicologo: la parola è sulla bocca di tutti, anche senza motivo e, contemporaneamente, per i più svariati di motivi, dall'offesa ("fatti curare da un bravo psicologo") allo status symbol ("il mio psicologo dice che devo fare, dire, comportarmi ecc.).
Lo psicologo è solo un laureato in psicologia; nulla di più, nulla di meno.
Tempi addietro, il diploma di laurea in Psicologia, della facoltà di Scienze della Formazione (Ex Magistero, per essere proprio arcaici!!!) constava di 5 anni più uno post lauream di tirocinio obbligatorio per poter sostenere l'esame di stato ed essere, finalmente, abilitati e iniziare a far danni (!!!).
Esisteva un biennio comune a tutti e un triennio con quattro indirizzi differenti: psicologia clinica e di comunità - per i "problemi" degli adulti e per accedere, appunto, nelle comunità terapeutiche-, psicologia dell'età evolutiva - per chi aveva la passione dei bambini e degli adolescenti e relativi problemi (accollandosi di conseguenza, il più delle volte, tutta la famiglia!), psicologia del lavoro - esperti (??) testisti e selezionatori, programmatori di risorse umane aziendali -  e, infine, psicologia sperimentale, per gli appassionati di ricerca (di modelli di funzionamento della mente).
Ammetto la mia ignoranza rispetto a come sia attualmente configurata la (povera) facoltà di psicologia: l'ultima volta che ci ho dato un'occhiata ho visto che erano sorte una miriade di sotto specializzazioni.
Spero non si offenda nessuno (tanto so che lo faranno...gli psicologi son permalosi) ma già a quel tempo i 5 anni di laurea erano inutili, nel senso che uscivi dalla facoltà che non sapevi un bel niente della mente umana nè eri diventato un mago che leggeva nel pensiero, interpretava sogni e capiva tutti i tuoi reconditi segreti; adesso hanno reso questa facoltà ancora più inutile e poco formativa, con poca o nulla formazione clinica e dei tirocini assolutamente inadeguati, fatti anche durante il corso stesso di laurea, quando si sa ancora meno di clinica (leggasi "mente" e relativi disagi e/o esperienze di vita differenti, mondi altri da sè)..
Ma sorvoliamo sulle critiche ovvie all'università chè sarebbe come sparare sulla croce rossa! 
Il problema è che gli psicologi, una volta laureati e abilitati, sono belli che autorizzati a comprare e somministrare test psicologici, firmare relazioni sullo stato mentale di una persona (fare diagnosi) e condurre colloqui di sostegno psicologico (counselling psicologico), che mai nessuno ha capito quanti dovrebbero essere per non diventare una terapia personale (nè mai nessuno ha capito in cosa consistano , vista la carenza di esperienza clinica di cui sopra).
Quindi che fa uno psicologo? Un bel niente! E mi si venga a dire il contrario!
Nulla contro la buona volontà dei giovani psicologi ma è una questiona molto pratica di esperienza clinica; non la voglio chiamare "gavetta" ma non tutti gli psicologi hanno, per esempio, la fortuna di fare un tirocinio davvero formativo: molti fanno fotocopie per un anno e di "vedere" un paziente manco col binocolo.
Quindi si, prima di poter "fronteggiare" una persona, un altro essere umano, bisogna avere esperienza.
Non si parla di pazienti di un reparto che per i medici sono le loro cartelle; non si tratta di clienti che riempiono, eventualmente, i portafogli: sono persone che soffrono quelle che si rivolgono ad uno psicologo e bisogna avere l'onestà umana e professionale di sapere cosa si sta andando a fare.

Quindi che fare dopo la laurea se ben poca cosa posso fare come psicologo abilitato (parlando di aiutare le persone)?
Tocca prendere una specializzazione post lauream: altri 4 anni (talora 5, per le scuole che  obbligano la formazione personale) a studiare e (tanti) soldi che se ne vanno.
La specializzazione in psicoterapia è quella che "forma" lo psicologo e gli da teorie, strumenti e tecniche per aiutare davvero le persone, alleviandone e/o risolvendone i disagi.
Basta fare una ricerca su internet per leggere svariati aggettivi che accompagnano la parola psicoterapeuta e psicoterapia: cognitivo - comportamentale (come il sottoscritto), rogersiana, dinamica, strategica, sistemico - relazionale, integrata, junghiana, ecc ecc, fino agli psicoanalisti che, pur essendo psicoterapeuti come tutti gli altri, devono esser chiamati psicoanalisti.
Come dicevo, negli anni di specializzazione vengono apprese tecniche e metodi di aiuto che nascono dalla teoria di riferimento specifica che distingue quella scuola di pensiero e che, in parole povere, "spiega il funzionamento mentale" e, in particolare, il disturbo: perchè nasce, come si mantiene, come si cura.
Di solito prima di scegliere la scuola di specializzazione, ogni saggio psicologo studia un pò i vari approcci per cercare di capire almeno la sua di mente che tipo di funzionamento ha, così da avvicinarsi alla scuola con la quale condivide la propria struttura mentale!

In conclusione, le varie scuole di specializzazione sono differenti approcci ai problemi della persona. Personalmente mi sento di dire che non è fondamentale che si conosca tutto questo di uno psicoterapeuta: il rapporto che si instaura fra una persona sofferente e il professionista cui si rivolge è innanzitutto di tipo umano e di fiducia reciproca. Se mancano questi due elementi non si creerà mai una relazione e, quindi, non vi sarà nessun aiuto possibile, nemmeno conoscendo tutte le tecniche di questo mondo!
Infine, sarebbe auspicabile che un bravo psicoterapeuta non sia troppo rigido sulle proprie teorie ma disposto ad integrare nelle sue conoscenze e competenze teorie e tecniche di approcci differenti: lo scopo ultimo di tutte le scuole di pensiero deve essere il benessere del paziente, cioè della persona!

Lo psichiatra, infine, è innanzitutto un medico, un laureato in medicina e chirurgia (lo psicologo NON è un medico!) che dopo la laurea ha conseguito una specializzazione in psichiatria.
Per la legge italiana, forse perchè hanno studiato troppo, gli psichiatri sono (purtroppo!) riconosciuti psicoterapeuti; per fortuna, i più onesti che vogliono praticare anche come psicoterapeuti svolgono un ulteriore percorso di formazione in psicoterapia.
Lo psichiatra è il medico che da i farmaci per i disagi mentali: lo so, è brutale e riduttivo ma almeno ci capiamo subito.
Ovviamente non è solo questo nè, soprattutto, il fatto che sia esperto di farmaci per i disagi mentali lo configura come il "medico dei pazzi" anzi...DEVE essere uno psichiatra a fornire il supporto farmacologico!
Sono loro che hanno la formazione adeguata, medica e farmacologica, per operare la giusta scelta di farmaco ed adattarlo adeguatamente alle esigenze di ogni singola persona.
Non è il neurologo cui ci si deve rivolgere se si è depressi o si ha l'ansia nè tanto meno farsi dare farmaci dal medico di famiglia o, peggio, dal farmacista (che dovrebbe anzi indirizzare da uno psichiatra, cosa che troppo poco avviene): la gente continua ancora a pensare che il neurologo è il medico dei nervi, della testa e quindi se uno sta "male di testa" deve andare dal neurologo. Lo psichiatra è tabù: quello è il medico dei pazzi.
Ovviamente senza nulla togliere alla formazione e alla professionalità di neurologi, medici di base e farmacisti la scelta deve ricadere sullo psichiatra, sperando che prima o poi lo stigma che lo attanaglia sia spezzato!
Sarebbe buona cosa che nell'approccio al disagio di una persona vi fosse la comunicazione fra tutte queste figure, professionisti della salute mentale: lo psicologo - psicoterapeuta che ne ravveda la necessità deve poter saper indirizzare il proprio paziente da uno psichiatra di fiducia e la persona deve poter esser certa che la scelta che sta venendo operata è solo per il suo bene.
Lo stesso dicasi per i medici di base e i farmacisti: sarebbe auspicabile che riuscissero ad inviare le persone che si rivolgono a loro con disagi psicologici ai giusti professionisti per intraprendere un percorso di cura, eventualmente.

Spero chiarezza sia stata fatta su queste "strane" figure...

sabato 29 giugno 2013

Il colloquio con lo psicologo


Decidere di rivolgersi ad uno psicologo può significare diverse cose: il "caso" più frequente è quello in cui una persona che ha maturato la consapevolezza di avere un disagio più o meno intenso. In questo specifico caso, ovviamente, può essere insorto un sintomo come ad esempio ansia, depressione, disturbi alimentari o da dipendenze, ecc.
Una persona però può anche decidere di voler affrontare un percorso di conoscenza personale per capire "da dove provengono" alcuni suoi comportamenti e modi di pensare ed eventualmente modificarli, se gli creano difficoltà: parliamo ad esempio di difficoltà a gestire lo stress, la rabbia, difficoltà comunicative e relazionali, problematiche legate all'autostima e alle capacità assertive, ecc.
Infine, ci si può rivolgere ad uno psicologo per un "counselling" su particolari situazioni di vita in cui c'è necessità di prendere delle decisioni per le quali si desidera essere supportati o, perchè no, aiutati: quindi, in questi casi l'obiettivo sarà aumentare il "problem solving" della persona e le sue abilità così dette di "decision making" ed altre che possono essere utili nella particolare situazione di vita del momento.
Una seduta psicologica "inizia", quindi, con una richiesta da parte di una persona ad un professionista: una richiesta d'aiuto.

Molte persone, immaginando una seduta dallo psicologo, si rappresentano uno scenario abbastanza tipico, stereotipato e, a dirla tutta, per niente corrispondente con la realtà (o almeno non sempre), per lo più trasmesso dai media: paziente sdraiato sul lettino a parlare della sua infanzia e dei vari traumi subiti (9 volte su 10 traumi dovuti al rapporto con i genitori) e psicologo che prende appunti (o peggio che dorme!).
In realtà, non avviene proprio questo; o meglio, per essere precisi, lettino e intenso lavoro sul passato sono tecniche proprie di uno psicoanalista, cioè uno psicologo che ha preso una specializzazione in psicoanalisi (tuttavia questa differenziazione non è sufficiente poichè sarebbe riduttivo dire che la psicoanalisi è solo questo!).

La seduta psicologica è innanzitutto un colloquio fra due persone: la persona che porta il suo disagio, il suo problema che "fa una domanda" e lo psicologo, che mette a disposizione la sua competenza professionale.
Lo psicologo, tramite il colloquio, esamina in maniera più approfondita il problema presentato dalla persona: cerca di capire, insieme alla persona, quali possono essere le cause che hanno scatenato il problema e cerca, sempre insieme alla persona, delle possibili soluzioni ad esso. Tecnicamente questa fase iniziale è l'analisi della domanda e può "durare" anche più di una seduta; talora, a percorso iniziato, la domanda iniziale di aiuto può anche mutare, perchè magari nascono nuovi bisogni nella persona e/o si identificano situazioni e obiettivi ulteriori.

Potrebbe sembrare semplicistico dire che dallo psicologo si va solo per parlare e in effetti non è così semplice.

Lo psicologo possiede strumenti che aiutano la persona a focalizzare meglio i suoi pensieri e le sue emozioni e ad esprimerli appieno; se necessario, insegna alla persona tecniche per gestire i problemi (ad esempio tecniche di problem solving, tecniche di rilassamento, tecniche di gestione dell'ansia, gestione dello stress, tecniche per potenziare le abilità sociali, abilità assertive e comunicative e molte altre); cerca di alleviare le sofferenze della persona, fornendo ad essa ma soprattutto tramite ciò che la persona gli porta una chiave di lettura (storia del disturbo) del suo sintomo e una possibile soluzione.
Lo scopo dei colloqui è capire, psicologo e paziente insieme, qual è il problema, cosa lo ha causato e come mai continua e permanere.
Lo psicologo cerca di comprendere e far comprendere le modalità, spesso automatiche e incosapevoli, che la persona mette in atto quando si presentano i problemi e insieme cercano modi più efficaci di agire.
Può essere utile durante le sedute l'utilizzo di test psicodiagnostici, che servono a valutare alcuni aspetti della vita della persona o l'intensità di alcuni sintomi/disturbi.
Anche relativamente ai test psicologici esistono alcuni pregiudizi: il più diffuso è probabilmente quello secondo cui con i test psicologici si capisce TUTTO di una persona, se ne sonda la personalità e si scoprono chissà quali segreti.
Cosa non esattamente vera. Vi sono dei test che valutano si aspetti della personalità ma è anche vero che se una persona non risponde "onestamente" alle domande di un test, l'unica cosa che fa è invalidare il test stesso, rendendo inutili i risultati.
Nei test non esistono maniere giuste o sbagliate di rispondere e lo psicologo non utilizza i test perchè vuole sapere chissà cosa su una persona, magari qualche segreto che la persona vuol tenere per sè: lo psicologo di una persona conosce solo ciò che la persona gli dirà.
Quindi i test, se utilizzati, servono allo psicologo ad avere una visione più completa del problema e della persona; visione che ovviamente viene condivisa con il paziente (ovvero lo psicologo NON tiene per sè i risultati dei test ma li comunica alla persona, SEMPRE!).
Così come non deve essere un segreto COSA è il disagio che sta vivendo la persona: che si chiami ansia, depressione, fobia o altro: la DIAGNOSI, che tutti vogliono, DEVE essere condivisa e condivisi devono essere i metodi per fronteggiare il problema, colloqui psicologici, sostegno, tecniche particolari.
La persona deve sapere cosa verrà fatto durante il percorso psicologico o durante la terapia e perchè viene fatto, quali sono gli obiettivi!
In fondo è della loro vita che si parla e del loro benessere mentale: non condividere con il paziente significa semplicemente non creare alcuna relazione terapeutica efficace.
Non esiste colloquio ed eventuale sostegno e/o psicoterapia che non si basi sulla relazione terapeutica: rispetto, fiducia, onestà, umiltà reciproci ne sono alla base e senza di esse la persona non sarà motivata al percorso e lo psicologo non sarà un professionista degno di questo nome.
In conclusione una seduta psicologica è un "colloquio fra due persone che crea una relazione": un membro della relazione utilizza il colloquio per portare un problema e cercare di risolverlo; l'altro membro offre conoscenze, strumenti teorici e pratici, calore, empatia, accettazione incondizionata e professionalità per risolvere insieme alla persona il suo problema.
Non ci sono tempi prestabiliti, salvo per alcune circostanze molto specifiche.

Si può però anzi si DEVE stabilire su cosa lavorare e cosa ottenere: a decidere questo deve essere la persona che chiede aiuto per riprendere in mano la propria vita e questo passo lo fa già ammettendo lei stessa cosa vuole ottenere.
Durante il colloquio con lo psicologo una persona può più precisamente focalizzare il proprio obiettivo da raggiungere e questo restringe il campo d'azione su cui intervenire.
Per capirci: spesso una persona dice "semplicemente" che sta male, che è insoddisfatta, che non è serena; in terapia io chiedo alla persona di dimenticare questi termini significano poco e non ci dicono nulla su COSA crea o mantiene una situazione.
Quindi, il primo obiettivo, è identificare cosa è il malessere della persona; già questa cosa, tramite il colloquio psicologico, allevia moltissimo lo stato d'animo delle persona che, credendo che sia l'intera loro vita ad andare a rotoli, ad essere confusa, ecc., si rendono conto di avere ANCORA moltissime aree della loro vita funzionali e che, a causa dei loro automatismi emotivi e comportamentali, non riescono più a vedere razionalmente e con uno stato emotivo adeguato l'effettiva portate del loro malessere.

Stabili gli obiettivi di un qualsiasi intervento psicologico è, dunque, il primo passo da fare tramite i colloqui; tutto quanto avviene dopo, attraverso il consolidarsi della relazione terapeutica e l'acquisizione di conoscenze sul problema da parte sia della persona che dello psicologo, varia a seconda dell'orientamento teorico proprio di ogni professionista che, in base alle proprie competenze, offrire un "metodo" piuttosto che un altro; ognuno, sempre e comunque, mirato al recupero di una condizione di benessere della persona.

martedì 18 giugno 2013

Quando chiedere aiuto allo psicologo?


Purtroppo, troppo spesso, le persone decidono di rivolgersi ad un professionista abbastanza tardi, anche se, ahimè, a ragion veduta.
Nel 2013 l'alone che circonda la figura dello psicologo (e dello psicoterapeuta!) resta ancora circondata e intrisa da varie e svariate influenze che vanno dallo stimato professionista medico (ma lo psicologo un medico non è!!) al mago che risolverà i problemi perchè basta che gli parli e lui capisce tutto (magari!) per finire ad essere un non lontanissimo parente di astrologi e cartomanti (con tutto il rispetto per queste altre professioni) per finire con l'essere un ciarlatano e basta.
Dunque, grazie anche alle influenze dei mass media (film, libri e persino musica, specie di origine americana) e di una sub-cultura (tipicamente italiana) improntata al "i panni sporchi si lavano in famiglia" piuttosto che "non mi serve lo psicologo non sono mica matto!", la sofferenza e il disagio psicologico dilagano ad ogni età e con differenti intensità sempre più frequentemente, soprattutto nella attuale società contemporanea e di certo non è d'aiuto a nessuno lo scarso supporto fornito anche dai medici di base, troppo facilmente propensi a dispensare farmaci piuttosto che suggerire utili percorsi di salute mentale.

In genere, dunque, capita che una persona (o un suo familiare o una persona vicina) si rivolga ad uno psicologo solo quando i sintomi di un qualche disagio (ansia, panico, depressione, disturbi alimentari o altri) sono diventati ingestibili: la vita della persona è compromessa in vari ambiti e la sua qualità di vita e decisamente bassa.

Si può ricorrere all'aiuto dello psicologo per svariati motivi: lo psicologo non si occupa (o almeno non solo!) di "matti" (per quello che possa poi significare questo termine oggigiorno...) 
Pensiamo ad esempio a dei sintomi di ansia che iniziano a manifestarsi per un qualunque motivo: si tende a pensare che sia qualcosa di passeggero e, fortunatamente, molte volte lo è.
Altre volte, invece, questi sintomi iniziano a peggiorare: aumentano di frequenza, di intensità (spesso diventano delle vere e proprie crisi di ansia acuta o, peggio, degli attacchi di panico) e, a lungo andare, se non trattati in tempo e in maniera adeguata, possono invalidare la  vita di una persona, nel campo sociale, affettivo, lavorativo, ecc.
La persona colpita da questi sintomi inizierà a non uscire più, per paura di sentirsi male e non poter gestire i sintomi: questa "illusione" è in realtà evitamento, un comportamento (in realtà una vera e propria tecnica di sopravvivenza) che permette di evitare, appunto, situazioni, luoghi, persone che nella nostra mente potrebbero innescare i sintomi ansiosi (questa modalità comportamentale è valida per tutti i disturbi: ansia, depressione, fobie...).

Rivolgersi ad uno psicologo sin dai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l'aggravamento di una situazione.
Spesso i disagi mentali arrivano in maniera insidiosa, lentamente e ci si rende conto di essi solo quando esplodono potentemente nelle nostre vite; sarebbe bene che nella società odierna, così frettolosa, così egoista, così fortemente stressante, passasse da ogni ente di cura l'interesse a curare la propria sfera psicologica, con servizi adeguati e proposte professionali facilmente fruibili per tutti.
Lo psicologo è il professionista che può capire il disagio che una persona vive, fornire spiegazioni sul perchè sta vivendo una situazione di malessere e "tranquillizzarla" su ciò che sta passando (tecnicamente si dice "normalizzare", ovvero far capire alle persone, in maniera adeguata, che ciò che vivono non è indice di gravi malattie nè fisiche nè, soprattutto, mentali!).

Attraversare momenti di malessere psicologico può capitare: soffrire di depressione, ansia, attacchi di panico (tanto per citare i malesseri più diffusi) NON è indice di pazzia!
Spesso, le persone hanno paura proprio di questo: credono che soffrire di ansia o attraversare un periodo di depressione equivalga all'esordio della pazzia.
E poi ci sono i sentimenti di colpa e la vergogna dovuti a retaggi secolari connessi alla sofferenza mentale: la sofferenza psicologica diventa colpa della persona che ne soffre (etichettato come "debole") ma anche della famiglia di cui fa parte (colpa di genitori, famiglia, paese, nazione e tutto il resto a presso!).
Nasce la paura dello stigma sociale: "bisogna" tenere nascosti i sintomi della "malattia" così da non poter essere riconosciuti dalla società. 

I malesseri psicologici sono spaventosi: come si avverte un sintomo ci si spaventa; la prima volta è un trauma che si cerca immediatamente di dimenticare, spesso con mezzi assolutamente inadeguati: alcool, condotte lesive, farmaci, ecc.
Poi capita che il sintomo si ripresenti una seconda volta, una terza e poi ancora e ancora; e ogni volta la persona fa di tutto per arginare e contenere i "danni" dei sintomi: non ne parla per vergogna e ci si difende e ci si rinchiude sempre più, nell'attesa angosciosa che si ripresenti il sintomo o che scompaia magicamente.
Alla fine, però, purtroppo, il sintomo diventa parte della vita della persona, diventando cronico, sepolto sotto tutto ciò che una persona ha fatto per "nasconderlo", "non pensarci", "metterlo da parte".
Non si cerca supporto, nemmeno dagli amici o dai familiari; non se ne parla per vergogna e timore di essere diventata una "persona diversa": "un tempo ero quello forte: mai avrei pensato mi potesse capitare una cosa simile, a me. Io che ero uno su cui tutti hanno sempre fatto affidamento, il forte della situazione" (cit. "Un mio paziente")
Con l'aiuto dello psicologo la persona impara a capire che la mente umana mette in atto le più svariate strategie per fronteggiare le situazioni difficili e/o dolorose: alcuni funzionali, altre meno.
E quando si presentano le strategie non funzionali, perchè limitanti la vita di una persona, chiedere aiuto allo psicologo è fondamentale per imparare nuove strategie per fronteggiare i problemi della vita.
Questo non vuol dire che la persona sia sbagliata o che il suo modo di vivere sia sbagliato: significa che un problema richiede una soluzione che una persona da sola non riesce a trovare.
Le strategie che mettiamo in atto di fronte ai problemi, alle sfide che la vita ci pone le impariamo sin dall'infanzia e si consolidano nel tempo, attraverso l'esperienza e la maturità.
Alcune strategie ci saranno utili per tutta la vita e in tutte le situazioni mentre altre risulteranno inefficaci e questo non perchè ci manchi qualcosa e, quindi, siamo sbagliati ma perchè in quella situazione non ci siamo mai trovati prima: quindi, non abbiamo gli strumenti adatti per fronteggiarla perchè nessuno ce li ha insegnati!
Diventati adulti è difficile che riusciamo a cambiare un modo di pensare e di agire difronte alle situazioni nuove; si cerca di mettere in atto strategie che conosciamo o si tenta di trovarne di nuove, che possono o meno andare bene.
Ci sono abilità e competenze che acquisiamo sin da piccoli e nel corso del tempo risulteranno sempre le stesse, con poche differenze di "applicazione": ad esempio portare la bicicletta!
Prendiamo il guidare la macchina invece: quando la prima volta provai a guidare una macchina con il cambio automatico fu un disastro (anche la seconda e svariate successive volte: le abitudini son difficili da sostituire!); alla fine ho acquisito la nuova abilità di sapere guidare un auto cui manca il terzo pedale che ho sempre conosciuto e grazie al quale guidavo.
Se nessuno mi avesse insegnato come si guida una macchina col cambio automatico probabilmente non ne avrei mai guidata una.
Pensate che siano riduttivi gli esempi citati? Non lo sono; abilità comportamentali e capacità mentali ed emotive si acquisiscono e si mantengono in maniere identica.

Laddove le varie strategie note che vengono utilizzate falliscono, ecco che si manifesta il malessere, l'ansia, la paura per qualcosa che non sappiamo fronteggiare: condizioni queste normalissime, umane.

Un altro esempio: non vi è mai capitato di essere a casa, in silenzio, immersi nei vostri pensieri e all'improvviso... un fortissimo rumore proveniente dall'esterno o dall'interno della vostra abitazione.
La prima reazione? Vi girate immediatamente verso la fonte del rumore con il cuore che vi palpita in gola (se non avete già mandato un urlo e vi siete buttati sotto il tavolo -anche queste reazioni "normali")
Che tipo di reazione è stata? Un riflesso innato, fisiologico di sopravvivenza: la paura di qualcosa di sconosciuto (il rumore) ha attivato il nostro corpo (il cuore che batte, le orecchie tese, i muscoli rigidi) e siamo pronti a scattare in caso di pericolo (o a fuggire - sotto il tavolo - o a richiamare l'attenzione - urlare -)
Questi esempi servono a dimostrare che tutte le reazioni emotive e/o fisiche messe in atto in particolari situazioni fanno parte della natura umana ed hanno una loro funzionalità o almeno l'avevano in altre circostanze.
Quindi l'ansia, la depressione, il panico non sono sintomo di pazzia ma reazioni naturali esagerate, frutto di strategie che in quella situazione non sono più funzionali ed esprimono a un bisogno che richiede la nostra attenzione.

Noi sappiamo di cosa abbiamo bisogno e cosa la vita che conduciamo ci porta a privarci e/o a negarci: a lungo andare, questo stress, queste forzature che facciamo alle nostre vite, per i più svariati motivi, potrebbero portare alla manifestazione di sintomi psicologici: difficoltà affettive e relazionali, disturbi dell'umore, disturbi d'ansia, disturbi alimentari, ossessioni, fobie, scarsa autostima, incapacità di gestire la rabbia e tutto ciò che può inficiare il nostro benessere psicologico.
Se possiamo prenderci cura di noi perchè non farlo in maniera adeguata?
Fattore determinante per chiedere aiuto ad uno psicologo diventa ovviamente quello economico che si lega a quello temporale: costa tanto e lo si dovrà fare per chissà quanti anni.
Non è assolutamente vero, almeno la seconda parte: una terapia adeguata può anche durare 3 mesi, 3 incontri, 3 anni. Sulla questione economica io (e capisco che sono di parte) la vedo come un investimento su se stessi e sulla propria salute: spendiamo tanto per tantissime cose che non sempre ci sono utili ed essenziali; possiamo riuscire a progettare un budget specifico per noi stessi e il nostro benessere che sarà un investimento per il futuro, quando non ne avremo più bisogno.


lunedì 10 giugno 2013

Curare il Disturbo da Attacchi di Panico


"L'Urlo" di E. Munch (Tipica rappresentazione del Disturbo da Attacchi di Panico!)


Avevo scritto del Disturbo da Attacchi di Panico nel precedente articolo e lo spunto per quest'altro, del tutto connesso al primo, mi è venuto da un interessante articolo trovato in rete  (http://www.stateofmind.it/2013/05/attacchi-panico-terapia-mantenimento).

La ricerca di cui si parla ha visto impegnati capoccioni universitari a cercare di scoprire i misteri della mente umana….ovviamente sempre con scarsi esiti e, soprattutto, portando come risultato delle cose così scontate (ma ribadite con parole diverse!) da farmi sorridere amabilmente…

Ovviamente non è una critica all’autrice dell’articolo ma alla ricerca in sé e mi spiego in merito.
È stato dimostrato ampiamente, attraverso protocolli di ricerca Evidence Based (=cioè con tanto di dati empirici, ricerche, analisi statistiche e tutto ciò che rende una teoria – in questo caso un metodo -  “scientificamente valida”) che la terapia cognitivo comportamentale è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, fra cui il disturbo da attacchi di panico (con o senza agorafobia indica solo la presenza di un sintomo, l’agorafobia che è l’evitamento di situazioni sociali, fino al non uscire più di casa, creando una  una “variante” del disturbo da attacchi di panico).
Se una persona matura sin dal primo sintomo l’idea di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per affrontare il problema, ci troveremo sicuramente in una fase acuta della sintomatologia: che si sia o meno già ripresentato un attacco di panico, lo stato ansioso della persona sarà certamente molto elevato a causa della paura che, appunto, si ripresenti il suddetto attacco di panico.
Si lavorerà dunque in questa fase acuta sui sintomi dell’ansia che durante un attacco di panico sono “semplicemente” amplificati all’ennesima potenza e più contingenti.
Per capirci: nella vita di tutti i giorni ho l’ansia che mi venga un attacco di panico, come accaduto in passato, e rivivere quella brutta esperienza di impazzire/morire/perdere il controllo (alla prima so stato fortunato ma chi mi dice che se dovesse riaccadere un attacco di panico non ci resto secco?!!?); nell’attacco di panico questi pensieri diventano reali e quasi tangibili: sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.
Dunque, il lavoro è sempre sulla sintomatologia ansiosa (l’attacco di panico è un disturbo d’ansia), sulle situazioni che generano l’ansia e, fulcro della terapia cognitivo comportamentale, sui pensieri che facciamo in quelle situazioni – le distorsioni cognitive, automatiche e inconsapevoli – che, in un circolo vizioso, alimentano l’ansia, ci fanno fare pensieri catastrofici (sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.) e ci fanno mettere in atto comportamenti per ridurre lo stato ansioso che ci porterebbe sicuramente ad avere un attacco di panico (o che crediamo ci farebbe avere un attacco di panico): il più delle volte comportamenti di evitamento e/o fuga dalle situazioni temute –fino all’instaurarsi dell’agorafobia.
Durante i primi mesi di terapia cognitivo comportamentale si lavora proprio su questi sintomi e su questi pensieri, come giustamente scritto nell’articolo citato: questo lavoro in genere va abbastanza spedito perché le persone hanno paura, vogliono liberarsi dall’ansia e, soprattutto, vogliono capire se stanno diventando pazze (!).
Primi mesi, in genere, significano, mi tengo largo, 4 – 6 mesi di terapia, considerando specifici casi individuali e le resistenze (anche inconsapevoli) che una persona può avere, per quanto tutti vogliano stare meglio.
Durante e dopo la prima fase d’attacco della terapia cognitivo comportamentale una persona dovrebbe potersi portare a casa utili e molteplici strumenti per affrontare le “tipiche” situazioni ansiogene e prevenire non l’attacco di panico bensì l’insorgere dell’ansia stessa (sebbene non si può eliminare completamente l’ansia dalla vita delle persone).
E dopo? I ricercatori citati dall’articolo parlando della terapia di mantenimento.
Va bene, perché no.
La mia domanda è: se la terapia cognitivo comportamentale, oggigiorno, ha i mezzi per indagare a fondo l’origine delle problematiche di una persona (la “nuova” generazione delle terapie cognitivo comportamentali: Acceptance and Commitment Therapy – ACT -, Mindfulness, Schema Therapy e un sacco di altre) e risolverle, perché  mai una persona che decide di fare il  mantenimento non dovrebbe essere motivata a risolvere davvero il proprio problema cercando di modificare quella base disfunzionale che si è attivata e che risale alle sue prime esperienze di vita?
Capisco che non tutti sono disposti ad un lavoro su se stessi così profondo e impegnativo.
In questi casi diventa fondamentale la relazione con il terapeuta: ai miei pazienti con disturbi d’ansia e di attacchi di panico, una volta “guariti” dall’ansia, auguro loro con tutto il cuore che gli strumenti che hanno imparato durante la terapia gli siano sempre utili nelle differenti situazioni future che potrebbero nuovamente scatenare una sintomatologia ansiosa anzi, che mai più si ripresenti una situazione che faccia scattare in loro tali sintomi (cosa anche questa molto probabile).
Mi sento però in dovere di ricordare loro che l’ansia, come qualunque altro disturbo, è un sintomo, un segnale di malesseri che hanno, probabilmente, origini più profonde e legate alle idee su noi stessi poco funzionali che si attivano in particolari situazioni e che ci procurano disagio.
Paradossalmente un disagio che serviva, in un passato, a proteggerci: se in una situazione temo di sembrare ridicolo allora è meglio che scappi per prevenire questa “realtà” (che io credo tale) su me stesso; stesso discorso nei casi di pericoli (sono debole, sono fragile) e in tutte le situazioni che mettono a repentaglio il nostro “fragile” ma inesatta idea su noi stessi.
Questo avveniva in passato: nel presente i sintomi ansiosi ci allarmano sul pericolo che possiamo correre e quindi ci procurano il disturbo perché i pensieri (appartenuti ad epoche “antiche”) sono così radicati in noi che crediamo siano le situazioni che ci hanno procurato il problema; crediamo sia sorta dal nulla l’ansia, la depressione o altro.
Dunque, un disagio può essere circoscritto ad un periodo di vita e non tornare mai più, si spera, come invece può ricapitare, una volta che si attiva l’idea su se stessi disfunzionale,  e ripresentarsi saltuariamente, fino a quando non verrà modificata quell’idea.
Quindi, terminata la fase di attacco sulla sintomatologia ansiosa e se una persona è motivata si può procedere, piuttosto che alla fase di mantenimento che allunga di un po’ di mesi il “benessere” raggiunto, ad una terapia che miri a ristrutturare idee e concetti di sé più profondi, che spesso sono “solo” frutto di educazione, acquisizioni culturali, influenze esterne che abbiamo passivamente accolto nella nostra persona in passato e che ora, purtroppo, una volta attivate, ci condizionano fortemente generando disagio psicologico.
In definitiva, ben venga il mantenimento, se una persona preferisce limitarsi alla cura sintomatologica, alla punta dell’iceberg: ma solo dopo che le persone siano informate del fatto che il disturbo da attacchi di panico, visto che di questo parla l’articolo, può essere curato all’origine e non solo “tamponato”.

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