"L'Urlo" di E. Munch (Tipica rappresentazione del Disturbo da Attacchi di Panico!) |
Avevo scritto del Disturbo da Attacchi di Panico nel precedente articolo e lo spunto per quest'altro, del tutto connesso al primo, mi è venuto da un interessante articolo trovato in rete (http://www.stateofmind.it/2013/05/attacchi-panico-terapia-mantenimento).
La ricerca di cui si parla ha visto impegnati capoccioni universitari a cercare di scoprire i misteri della mente umana….ovviamente sempre con scarsi esiti e, soprattutto, portando come risultato delle cose così scontate (ma ribadite con parole diverse!) da farmi sorridere amabilmente…
Ovviamente non è una critica
all’autrice dell’articolo ma alla ricerca in sé e mi spiego in merito.
È stato dimostrato ampiamente,
attraverso protocolli di ricerca Evidence Based (=cioè con tanto di dati
empirici, ricerche, analisi statistiche e tutto ciò che rende una teoria – in
questo caso un metodo - “scientificamente valida”) che la terapia cognitivo
comportamentale è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, fra cui il
disturbo da attacchi di panico (con o
senza agorafobia indica solo la presenza di un sintomo, l’agorafobia
che è l’evitamento di situazioni sociali, fino al non uscire più di casa,
creando una una “variante” del disturbo
da attacchi di panico).
Se una persona matura sin dal
primo sintomo l’idea di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per affrontare il
problema, ci troveremo sicuramente in una fase acuta della sintomatologia: che
si sia o meno già ripresentato un attacco di panico, lo stato ansioso della
persona sarà certamente molto elevato a causa della paura che, appunto, si
ripresenti il suddetto attacco di panico.
Si lavorerà dunque in questa fase
acuta sui sintomi dell’ansia che durante un attacco di panico sono
“semplicemente” amplificati all’ennesima potenza e più contingenti.
Per capirci: nella vita di tutti
i giorni ho l’ansia che mi venga un attacco di panico, come accaduto in
passato, e rivivere quella brutta esperienza di impazzire/morire/perdere il
controllo (alla prima so stato fortunato ma chi mi dice che se dovesse
riaccadere un attacco di panico non ci resto secco?!!?); nell’attacco di panico
questi pensieri diventano reali e quasi tangibili: sto
morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.
Dunque, il lavoro è sempre sulla
sintomatologia ansiosa (l’attacco di panico è un disturbo d’ansia), sulle situazioni che generano l’ansia e, fulcro della
terapia cognitivo comportamentale, sui pensieri che facciamo in quelle
situazioni – le distorsioni cognitive,
automatiche e inconsapevoli – che, in un circolo vizioso, alimentano
l’ansia, ci fanno fare pensieri
catastrofici (sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.) e ci fanno
mettere in atto comportamenti per ridurre lo stato ansioso che ci porterebbe
sicuramente ad avere un attacco di panico (o che crediamo ci farebbe avere un attacco di panico): il più delle volte
comportamenti di evitamento e/o fuga
dalle situazioni temute –fino all’instaurarsi dell’agorafobia.
Durante i primi mesi di terapia
cognitivo comportamentale si lavora proprio su questi sintomi e su questi
pensieri, come giustamente scritto nell’articolo citato: questo lavoro in genere
va abbastanza spedito perché le persone hanno paura, vogliono liberarsi
dall’ansia e, soprattutto, vogliono capire se stanno diventando pazze (!).
Primi mesi, in genere,
significano, mi tengo largo, 4 – 6 mesi di terapia, considerando specifici casi
individuali e le resistenze (anche inconsapevoli) che una persona può avere,
per quanto tutti vogliano stare meglio.
Durante e dopo la prima fase
d’attacco della terapia cognitivo comportamentale una persona dovrebbe potersi
portare a casa utili e molteplici strumenti per affrontare le “tipiche”
situazioni ansiogene e prevenire non l’attacco di panico bensì l’insorgere
dell’ansia stessa (sebbene non si
può eliminare completamente l’ansia dalla vita delle persone).
E dopo? I ricercatori citati
dall’articolo parlando della terapia di mantenimento.
Va bene, perché no.
La mia domanda è: se la terapia
cognitivo comportamentale, oggigiorno, ha i mezzi per indagare a fondo
l’origine delle problematiche di una persona (la “nuova” generazione delle
terapie cognitivo comportamentali: Acceptance and Commitment Therapy – ACT -,
Mindfulness, Schema Therapy e un sacco di altre) e risolverle, perché mai una persona che decide di fare il mantenimento non dovrebbe essere motivata a
risolvere davvero il proprio problema cercando di modificare quella base
disfunzionale che si è attivata e che risale alle sue prime esperienze di vita?
Capisco che non tutti sono
disposti ad un lavoro su se stessi così profondo e impegnativo.
In questi casi diventa
fondamentale la relazione con il terapeuta: ai miei pazienti con disturbi
d’ansia e di attacchi di panico, una volta “guariti” dall’ansia, auguro loro
con tutto il cuore che gli strumenti che hanno imparato durante la terapia gli
siano sempre utili nelle differenti situazioni future che potrebbero nuovamente
scatenare una sintomatologia ansiosa anzi, che mai più si ripresenti una
situazione che faccia scattare in loro tali sintomi (cosa anche questa molto
probabile).
Mi sento però in dovere di
ricordare loro che l’ansia, come qualunque altro disturbo, è un sintomo, un
segnale di malesseri che hanno, probabilmente, origini più profonde e legate
alle idee su noi stessi poco funzionali che si attivano in particolari
situazioni e che ci procurano disagio.
Paradossalmente un disagio che
serviva, in un passato, a proteggerci: se in una situazione temo di sembrare
ridicolo allora è meglio che scappi per prevenire questa “realtà” (che io credo
tale) su me stesso; stesso discorso nei casi di pericoli (sono debole, sono
fragile) e in tutte le situazioni che mettono a repentaglio il nostro “fragile”
ma inesatta idea su noi stessi.
Questo avveniva in passato: nel
presente i sintomi ansiosi ci allarmano sul pericolo che possiamo correre e
quindi ci procurano il disturbo perché i pensieri (appartenuti ad epoche
“antiche”) sono così radicati in noi che crediamo siano le situazioni che ci
hanno procurato il problema; crediamo sia sorta dal nulla l’ansia, la
depressione o altro.
Dunque, un disagio può essere
circoscritto ad un periodo di vita e non tornare mai più, si spera, come invece
può ricapitare, una volta che si attiva l’idea su se stessi disfunzionale, e ripresentarsi saltuariamente, fino a quando
non verrà modificata quell’idea.
Quindi, terminata la fase di
attacco sulla sintomatologia ansiosa e se una persona è motivata si può
procedere, piuttosto che alla fase di mantenimento che allunga di un po’ di
mesi il “benessere” raggiunto, ad una terapia che miri a ristrutturare idee e
concetti di sé più profondi, che spesso sono “solo” frutto di educazione,
acquisizioni culturali, influenze esterne che abbiamo passivamente accolto
nella nostra persona in passato e che ora, purtroppo, una volta attivate, ci
condizionano fortemente generando disagio psicologico.
In
definitiva, ben venga il mantenimento, se una persona preferisce limitarsi alla
cura sintomatologica, alla punta dell’iceberg: ma solo dopo che le persone
siano informate del fatto che il disturbo da attacchi di panico, visto che di
questo parla l’articolo, può essere curato all’origine e non solo “tamponato”.
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