lunedì 10 giugno 2013

Curare il Disturbo da Attacchi di Panico


"L'Urlo" di E. Munch (Tipica rappresentazione del Disturbo da Attacchi di Panico!)


Avevo scritto del Disturbo da Attacchi di Panico nel precedente articolo e lo spunto per quest'altro, del tutto connesso al primo, mi è venuto da un interessante articolo trovato in rete  (http://www.stateofmind.it/2013/05/attacchi-panico-terapia-mantenimento).

La ricerca di cui si parla ha visto impegnati capoccioni universitari a cercare di scoprire i misteri della mente umana….ovviamente sempre con scarsi esiti e, soprattutto, portando come risultato delle cose così scontate (ma ribadite con parole diverse!) da farmi sorridere amabilmente…

Ovviamente non è una critica all’autrice dell’articolo ma alla ricerca in sé e mi spiego in merito.
È stato dimostrato ampiamente, attraverso protocolli di ricerca Evidence Based (=cioè con tanto di dati empirici, ricerche, analisi statistiche e tutto ciò che rende una teoria – in questo caso un metodo -  “scientificamente valida”) che la terapia cognitivo comportamentale è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, fra cui il disturbo da attacchi di panico (con o senza agorafobia indica solo la presenza di un sintomo, l’agorafobia che è l’evitamento di situazioni sociali, fino al non uscire più di casa, creando una  una “variante” del disturbo da attacchi di panico).
Se una persona matura sin dal primo sintomo l’idea di rivolgersi ad uno psicoterapeuta per affrontare il problema, ci troveremo sicuramente in una fase acuta della sintomatologia: che si sia o meno già ripresentato un attacco di panico, lo stato ansioso della persona sarà certamente molto elevato a causa della paura che, appunto, si ripresenti il suddetto attacco di panico.
Si lavorerà dunque in questa fase acuta sui sintomi dell’ansia che durante un attacco di panico sono “semplicemente” amplificati all’ennesima potenza e più contingenti.
Per capirci: nella vita di tutti i giorni ho l’ansia che mi venga un attacco di panico, come accaduto in passato, e rivivere quella brutta esperienza di impazzire/morire/perdere il controllo (alla prima so stato fortunato ma chi mi dice che se dovesse riaccadere un attacco di panico non ci resto secco?!!?); nell’attacco di panico questi pensieri diventano reali e quasi tangibili: sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.
Dunque, il lavoro è sempre sulla sintomatologia ansiosa (l’attacco di panico è un disturbo d’ansia), sulle situazioni che generano l’ansia e, fulcro della terapia cognitivo comportamentale, sui pensieri che facciamo in quelle situazioni – le distorsioni cognitive, automatiche e inconsapevoli – che, in un circolo vizioso, alimentano l’ansia, ci fanno fare pensieri catastrofici (sto morendo/impazzendo/perdendo il controllo ecc.) e ci fanno mettere in atto comportamenti per ridurre lo stato ansioso che ci porterebbe sicuramente ad avere un attacco di panico (o che crediamo ci farebbe avere un attacco di panico): il più delle volte comportamenti di evitamento e/o fuga dalle situazioni temute –fino all’instaurarsi dell’agorafobia.
Durante i primi mesi di terapia cognitivo comportamentale si lavora proprio su questi sintomi e su questi pensieri, come giustamente scritto nell’articolo citato: questo lavoro in genere va abbastanza spedito perché le persone hanno paura, vogliono liberarsi dall’ansia e, soprattutto, vogliono capire se stanno diventando pazze (!).
Primi mesi, in genere, significano, mi tengo largo, 4 – 6 mesi di terapia, considerando specifici casi individuali e le resistenze (anche inconsapevoli) che una persona può avere, per quanto tutti vogliano stare meglio.
Durante e dopo la prima fase d’attacco della terapia cognitivo comportamentale una persona dovrebbe potersi portare a casa utili e molteplici strumenti per affrontare le “tipiche” situazioni ansiogene e prevenire non l’attacco di panico bensì l’insorgere dell’ansia stessa (sebbene non si può eliminare completamente l’ansia dalla vita delle persone).
E dopo? I ricercatori citati dall’articolo parlando della terapia di mantenimento.
Va bene, perché no.
La mia domanda è: se la terapia cognitivo comportamentale, oggigiorno, ha i mezzi per indagare a fondo l’origine delle problematiche di una persona (la “nuova” generazione delle terapie cognitivo comportamentali: Acceptance and Commitment Therapy – ACT -, Mindfulness, Schema Therapy e un sacco di altre) e risolverle, perché  mai una persona che decide di fare il  mantenimento non dovrebbe essere motivata a risolvere davvero il proprio problema cercando di modificare quella base disfunzionale che si è attivata e che risale alle sue prime esperienze di vita?
Capisco che non tutti sono disposti ad un lavoro su se stessi così profondo e impegnativo.
In questi casi diventa fondamentale la relazione con il terapeuta: ai miei pazienti con disturbi d’ansia e di attacchi di panico, una volta “guariti” dall’ansia, auguro loro con tutto il cuore che gli strumenti che hanno imparato durante la terapia gli siano sempre utili nelle differenti situazioni future che potrebbero nuovamente scatenare una sintomatologia ansiosa anzi, che mai più si ripresenti una situazione che faccia scattare in loro tali sintomi (cosa anche questa molto probabile).
Mi sento però in dovere di ricordare loro che l’ansia, come qualunque altro disturbo, è un sintomo, un segnale di malesseri che hanno, probabilmente, origini più profonde e legate alle idee su noi stessi poco funzionali che si attivano in particolari situazioni e che ci procurano disagio.
Paradossalmente un disagio che serviva, in un passato, a proteggerci: se in una situazione temo di sembrare ridicolo allora è meglio che scappi per prevenire questa “realtà” (che io credo tale) su me stesso; stesso discorso nei casi di pericoli (sono debole, sono fragile) e in tutte le situazioni che mettono a repentaglio il nostro “fragile” ma inesatta idea su noi stessi.
Questo avveniva in passato: nel presente i sintomi ansiosi ci allarmano sul pericolo che possiamo correre e quindi ci procurano il disturbo perché i pensieri (appartenuti ad epoche “antiche”) sono così radicati in noi che crediamo siano le situazioni che ci hanno procurato il problema; crediamo sia sorta dal nulla l’ansia, la depressione o altro.
Dunque, un disagio può essere circoscritto ad un periodo di vita e non tornare mai più, si spera, come invece può ricapitare, una volta che si attiva l’idea su se stessi disfunzionale,  e ripresentarsi saltuariamente, fino a quando non verrà modificata quell’idea.
Quindi, terminata la fase di attacco sulla sintomatologia ansiosa e se una persona è motivata si può procedere, piuttosto che alla fase di mantenimento che allunga di un po’ di mesi il “benessere” raggiunto, ad una terapia che miri a ristrutturare idee e concetti di sé più profondi, che spesso sono “solo” frutto di educazione, acquisizioni culturali, influenze esterne che abbiamo passivamente accolto nella nostra persona in passato e che ora, purtroppo, una volta attivate, ci condizionano fortemente generando disagio psicologico.
In definitiva, ben venga il mantenimento, se una persona preferisce limitarsi alla cura sintomatologica, alla punta dell’iceberg: ma solo dopo che le persone siano informate del fatto che il disturbo da attacchi di panico, visto che di questo parla l’articolo, può essere curato all’origine e non solo “tamponato”.

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